Una disciplina poco apprezzata nel panorama delle scienze sociali, la demografia, è verosimilmente quella decisiva – unitamente alla filosofia – per la comprensione di quanto sta accadendo in Russia.
La demografia della Russia, riassunta nella piramide demografica mostrata sotto, è assimilabile a pochi altri paesi, tra i quali Italia e Giappone. Una popolazione vecchissima, sostentata da una forza lavoro sempre più ristretta a causa del declino demografico degli anni ‘90, in cui il tasso di fertilità si è mantenuto stabilmente – e di molto – sotto ai 2.1 figli/donna richiesto per il mantenimento del livello di popolazione.
La riforma draconiana delle pensioni effettuata da Putin nel 2018, che ha portato l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini a fronte di un’aspettativa di vita di 68, segnala il crescente allarme demografico. La riforma equivale di fatto all’eliminazione del pensionamento dal ciclo di vita della maggioranza dei lavoratori russi.
Dinanzi a una demografia decadente, le uniche due politiche possibili sono l’immigrazione di lavoratori qualificati e l’aumento della produttività. La politica di immigrazione avrebbe dovuto essere volta all’immissione di lavoratori stranieri che diventassero dei proxy dei lavoratori “sottratti” dalla natalità mancata negli anni ‘90 fino al ristabilimento del rapporto ottimale tra forza lavoro e popolazione dipendente.
Questo rapporto è di circa 1-a-1 in Russia, che conta una forza-lavoro di circa 70 milioni di persone. Non è, apparentemente, molto migliore di quello statunitense, anch’esso attorno all’1-a-1. E tuttavia, qui entra in gioco la scarsa produttività dei lavoratori russi, che renderebbe necessario un rapporto molto più alto. Poiché i lavoratori russi che entrano nel mercato del lavoro sono pressoché produttivi quanto quelli che escono – questa è, in generale, la piaga di lungo termine dell’assenza di progresso tecnologico – ne servirebbero molti di più, per ogni unità, di quelli che si può permettere l’economia americana.
Chiunque abbia avuto per motivi di ricerca o personali esposizione al livello dei salari russo, non può che esserne rimasto scioccato. Un’insegnante o un medico, al di fuori di poche eccezioni in San Pietroburgo e Mosca, portano a casa poche centinaia di € al mese. Lo stesso vale per gran parte dei lavoratori, ad eccezione della cerchia di oligarchi e ben pochi altri che guadagnano direttamente dal pochissimo e parassitario commercio internazionale della Russia.
Il livello dei salari delle professioni nel settore educativo e sanitario riflette la chiusura in sé stessa dell’economia russa, che importa pochissima della tecnologia occidentale, ne produce ben poca internamente, e dunque combina una domanda estera pressoché inesistente a una domanda interna asfittica.
Se si escludono gas, petrolio, e altre risorse naturali, che da sole ammontano a circa l’80% delle esportazioni, il valore monetario di beni e servizi esportati dalla Russia si riduce a poco più di 100 mld annui a fronte di circa 250 mld di importazioni, con un rapporto superiore a 1-a-2 di esportazioni relativamente a importazioni.
In altre parole, il mondo non ha bisogno della Russia, e la Russia ha bisogno del mondo. Lo stesso tira e molla attorno al gas con l’Europa è meglio analizzato con gli strumenti della teoria dei giochi che quelli del commercio internazionale. L’Europa ha fatto un patto con Satana nel mettere tutte le proprie uova energetiche nel paniere russo, e, conseguentemente, non può spegnere il bottone con la facilità con cui l’hanno fatto le multinazionali con sede in Russia. Dovrà verosimilmente cercare costosi approvvigionamenti di breve termine dal Nord Africa o via nave dagli Stati Uniti, tessendo, nel mentre, una politica energetica alternativa che dovrà necessariamente affrontare il nodo del nucleare.
Come spiegare la mossa di Putin, dunque? Qui entra in campo un secondo contributo decisivo, quello della filosofia della storia. Le motivazioni geopolitiche tradizionali, basate su controllo territoriale di presunte zone chiave o zone cuscinetto, risultano tutte in contraddizioni logiche. Putin, con la sua mossa, si è avvicinato, non allontanato dalla NATO, e questo lui lo sa benissimo. In secondo istanza, la decisività dell’Ucraina in un’epoca in cui la supremazia militare è basata sulla deterrenza tecnologica, non territoriale, è una proposizione risibile. E anche questo è qualcosa che Putin sa.
Di nuovo, l’esposizione alla politica interna russa viene in soccorso alla comprensione. Nel 2020, Putin ha promulgato una riforma della Costituzione dai toni espressamente reazionari, con la messa per iscritto del divieto di matrimonio omosessuale e altre misure dal valore altamente simbolico. La crescente alleanza con il potere ortodosso – si noti al proposito il convitato di pietra del patriarcato durante gli eventi ucraini – è il suggello della politica putiniana, che, nel corso degli anni ‘10, è passata dalla realpolitik alla politica ideologica.
Oltre al discorso con il quale Putin annuncia l’“operazione speciale”, è ancor più interessante il discorso di Putin al forum di Davos 2021, nel quale attinge al bacino argomentativo stereotipico della reazione, con toni millenaristi da crociata contro l’Occidente corrotto nelle menti e svirilizzato nei corpi. Putin, con questa guerra, ha di mira una cosa soltanto, lo stile di vita occidentale. Non le risorse, non la stabilità geopolitica, nemmeno l’espansione territoriale della politica di potenza.
L’Ucraina rischiava di trasformarsi in una Berlino Ovest, vetrina dello stile di vita occidentale e per questo pericoloso magnete d’attrazione per la Russia europea. Mosca e San Pietroburgo, nei settori tecnologici, cominciavano a pagare salari più vicini a quelli internazionali, attraendo i giovani russi spesso formati all’estero. Per inciso, una delle contraddizioni della Russia è quella di avere il 35% e passa della popolazione con istruzione universitaria – tra i livelli più alti nei paesi OCSE – per di più con sovrarappresentazione nelle discipline tecniche.
Questo nucleo di potenziali “nemici interni” stava già virando, nelle grandi città, verso stili di vita occidentali. Non a caso, aveva protestato, negli anni immediatamente precedenti ai fatti ucraini, con intensità prima sconosciuti in risposta alla nuova costituzione e in supporto alle rivolte bielorusse anti-Lukashenko.
La guerra di Putin è una crociata anti-occidentale. Questo spiega la brutalità, l’apparente illogicità di muovere il fronte più vicino alla NATO, e la capacità quasi fatalistica di sopportazione di sanzioni economiche straordinarie. Per questo motivo, l’esclusione dell’esito atomico è errata, poiché Putin ha abbracciato integralmente lo spirito di Stalingrado, lo stesso di Hitler che respingeva le lettere dei generali asserendo che “la sesta armata della Wermacht compirà il proprio destino storico a Stalingrado immolandosi fino all’ultimo uomo”.
Questo è il paragone Hitler-Putin decisivo, la dimensione ideologica della guerra.